Lo scenario geopolitico in Medioriente

La sfida che ci lancia lo Stato
Islamico

Da tempo i
jihadisti cercavano di ottenere un proprio paese,
uno
“Stato” islamista. Possedere gli strumenti e i privilegi di uno Stato è un atout
formidabile. Nel corso dei decenni ci hanno provato in Sudan, Afghanistan,
Yemen, nel Sahel eccetera, per impossessarsi di uno Stato già esistente e farlo
proprio. In gergo jihadista si chiama
la lotta contro il “nemico vicino”, cioè i regimi corrotti e filo-occidentali,

considerati eretici. Sullo sfondo una polemica che divide ancora oggi il mondo
dell’estremismo islamista.

Mentre al
Qaeda proseguiva la sua guerra al “nemico lontano”
– Usa, Occidente ma anche Russia – altri ritengono che sia meglio
concentrarsi nel “dar el islam”, la terra dell’islam. I tentativi di impadronirsi
di uno Stato erano però andati a vuoto. Al Qaeda sembrava aver ragione:
spargere terrore restando nell’ombra, come con l’11 settembre. Tuttavia
l’attentato alle Torri gemelle, pur con il suo enorme impatto mediatico, non ha
mutato gli equilibri geopolitici.

Non
conviene prendersela con uno Stato pre-esistente, difeso dalla comunità
internazionale,
ma concentrarsi su territori dalla
scarsa coesione, con forti scontenti sociali e deboli relazioni col governo
centrale. Nel mondo globalizzato tali zone sono numerose, anche nell’universo
musulmano. Ora, con l’Is (Stato Islamico), tale Stato è stato creato: un pezzo
di Siria e di Iraq, facendo saltare le frontiere
tracciate dagli europei
dopo la Prima guerra mondiale. Così, mentre
Bin Laden è morto e i suoi successori braccati si nascondono, lo Stato islamico
rinasce dalle ceneri dell’antico impero Ottomano, in Mesopotamia. Infatti al
Baghdadi, leader dell’Is, si è autoproclamato califfo, uno dei titoli che aveva
anche il Sultano di Istanbul.

È una
mossa importante perché nell’immaginario musulmano rimanda ai primi secoli
dell’Islam.
Il “nuovo” Stato non è riconosciuto da nessuno ma i
suoi sostenitori puntano alla legittimazione delle masse arabo-musulmane –
sunniti stanchi dell’oppressione sciita – cui un’assidua propaganda fa
luccicare il mito dell’epoca d’oro. Anche dopo la Grande guerra, con la fine
degli ottomani, gli arabi avevano chiesto (senza ottenerlo) un regno. Si
preferì il divide et impera creando Stati nazionali nuovi di zecca, come
l’Iraq e la Siria.

Il mito
dell’epoca d’oro è duro a morire nell’Islam.
Da quando
ha perso il potere temporale – in favore di turchi prima ed europei poi – il
mondo arabo-musulmano non ha cessato di vagheggiare una forma di nostalgia per
un passato remoto, quando il “vero” islam, egualitario ed incorrotto, regnava
senza dissensi da Baghdad o Damasco. Si tratta di un mito senza basi reali:
anche nei primi secoli ci furono lotte intestine, divisioni, corruzioni. Anzi
fu in quell’epoca che si compì l’evento più grave per l’islam, la Fitna, il
grande scisma tra sunniti e sciiti. Qui gioca anche una certa gelosia sunnita
nei confronti degli sciiti che uno Stato ce l’hanno da sempre: l’Iran.

Gli Stati
arabo-sunniti invece sono deboli
, disegnati
da estranei, divisi fra loro, in mano ad elite corrotte e prone allo straniero,
incapaci di difendersi (vedi le sconfitte con Israele) e soprattutto
insensibili ai bisogni della popolazione. Il nazionalismo arabo
filo-occidentale non ha funzionato; meno ancora il socialismo panarabo proposto
dal Cremlino ai tempi dell’Urss.

 

Cosa resta allora se non un califfato? L’Is
scommette sul sentimento di umiliazione dei sunniti arabi e prospetta loro una
soluzione etnico-religiosa. Così può giocare su due registri: usare un doppio
discorso arabista e islamista assieme, all’occorrenza. Ci aveva provato anche
Saddam verso la fine del suo dominio, quando da iperlaico aveva azzardato una
rocambolesca conversione all’islam. Era troppo tardi, ma i successivi errori
compiuti in Iraq e Siria hanno lasciato all’Is tutto lo spazio necessario.
Certo un punto debole di al Baghdadi è proprio l’organizzazione dello Stato
stesso: i suoi non paiono in grado di assicurare giustizia, lavoro e sicurezza
ai “cittadini”.

L’amministrazione di uno Stato non si improvvisa e non basta stabilire tribunali religiosi sul territorio per soddisfare i
bisogni di una popolazione che era tra le più laiche ed istruite del Medio Oriente,
prima del decennio di embarghi e guerre. Ma il vero problema è il messaggio che
l’idea stessa di “Stato islamico” veicola. È la rappresentazione che l’Is
lancia a popolazioni stremate da guerre ripetute, umiliazioni, sconfitte e
repressioni. A noi ciò sembra assurdo. A giusto titolo proviamo raccapriccio e
orrore davanti alle immagini
delle decapitazioni
e delle altre assurde violenze. Ricordiamoci
però che abbiamo avuto la stessa reazione davanti agli orrori delle guerre in
ex Jugoslavia. Teniamo inoltre a mente che purtroppo tali pratiche oscene
funzionano anche come appello e reclutamento di giovani, prima di tutto arabi e
poi venuti da Occidente.

I messaggi dello Stato Islamico sono di due tipi: terrificanti verso di
noi (Occidente e resto del mondo)
per
incutere paura e tenere a distanza; seducenti verso gli arabo-sunniti: ‘venite
tutti qui, costruiamo il nostro Stato e saremo finalmente liberi!’, proclama il
califfo. È a questo messaggio che dobbiamo rivolgere tutta la nostra
attenzione; ad esso vanno trovate risposte convincenti. La storia è punteggiata
da miti che rivivono artificialmente: si pensi alle nostalgie nazionaliste in
Europa, ai secessionismi o alle guerre balcaniche combattute in nome di un
passato remoto. C’è un tempo che non passa, una memoria malata davanti ad un
presente troppo incerto, frustrante e insoddisfacente. Guardare indietro sembra
un rifugio sicuro. D’altronde in questo nostro tempo fiorisce il vintage e il
futuro appare come una minaccia. Spesso le dittature iniziano così, ne sappiamo
qualcosa in Europa. E cominciano così anche le guerre: quelle contro un nemico
“immaginario” e immaginato, costruito a tavolino. Il nodo da affrontare dunque è la “narrazione” che l’Is ha elaborato
negli anni
e realizzato in questi mesi. La ritroviamo nei post di tanti
giovani jihadisti che hanno scelto di andare a combattere partendo da
moltissimi paesi: un misto di recriminazioni storico-immaginarie, vere
frustrazioni, false identificazioni, distorsione di miti occidentali (come le grand
soir
della rivoluzione, che risolverà ogni cosa). Nel discorso che l’Is
invia per internet viene ad esempio ritorto contro di noi tutto l’armamentario
post-ideologico “no-global” e nichilista della “falsa democrazia delle banche”.
Se la democrazia è questa, perché
difenderla? Chiede al Baghdadi
agli arabi che pure si erano infervorati
per le Primavere e agli emigrati musulmani in Europa che si sentono cittadini
di seconda classe? L’Is ci conosce bene e sa fare marketing. Ecco perché si
tratta di un avversario temibile, molto più pericoloso dei talebani
(antidiluviani che non amano la tecnologia) o di altre forme di estremismo
passatista. Un gesto come quello degli australiani che si sono offerti di
scortare gli immigrati musulmani nei giorni successivi all’attacco alla
cioccolateria è molto più pericoloso per l’Is di qualsiasi discorso incendiario
dei fomentatori della destra europea o americana. Assomiglia alla reazione dei
norvegesi dopo Utoya: difendere la nostra qualità democratica senza cadere
nella caccia alle streghe, che è proprio l’errore che vorrebbe farci commettere
al Baghdadi.

Nel mondo del revivalismo estremista islamico vengono utilizzati tutti i
registri ideologici
, un mix di antico e postmoderno
(con largo uso della tecnologia e dei social media), un nuovo prodotto
etnico-religioso creato ad arte, simile alla raccolta degli scritti irrazionali
dell’assassino di Utoya, Breivik o di altri. Davanti a tutto questo, la
dottrina dello “scontro tra civiltà” è un’arma non solo spuntata ma goffamente
preistorica. Come scrive Loretta Napoleoni nel suo recente saggio sull’Is, abbiamo a che fare con “l’utopia politica
sunnita del XXI° secolo, un potente edificio filosofico che per secoli gli
studiosi hanno cercato invano di far nascere”. Il cinismo inetto e isterico che
prevale oggi in certe elite occidentali servirà solo ad aumentare la
patologia. 

Per essere forti ci vuole un’idea, un’ideale, un’utopia da contrapporre
all’Is, con forza e fiducia nei propri mezzi.
Ma
le “passioni tristi” di un mondo egocentrico e psicologicamente infragilito
come il nostro non promettono bene. Dovremmo saper comunicare il valore
universale della democrazia, accettando anche l’autocritica sul nostro egoismo
che tutto vuole per sé e nulla concede. Sciaguratamente, sembriamo noi stessi
stufi del metodo democratico. Dobbiamo poter trasmettere un’idea positiva di
globalizzazione come incontro tra diversità non irriducibili e reciproco
arricchimento. Ma ciò è possibile solo con una politica economica che non
allarghi le diseguaglianze: sarebbe ora di smetterla con l’ipocrisia di imporre
ad altri regole che noi stessi non seguiamo e non vogliamo: il peso del mondo
multipolare si porta tutti insieme. Dovremmo poter comunicare il bello e il
buono di un convivere basato sulla pace e sui diritti umani, se non fosse che
spesso utilizziamo questi ultimi come arma contro altri, con un’arroganza che
respinge. 

Di fronte alla sfida capiamo meglio cosa vuol dire “accoglienza” degli
immigrati e integrazione,
che hanno il merito almeno di non
aumentare l’odio, l’incomprensione, la distanza. Chi vi si dedica lavora per il
futuro e protegge la nostra civiltà molto meglio di chi grida, condanna e
aumenta pregiudizi. Mense, scuole e luoghi di rifugio strappano tanti giovani
musulmani alla disperazione dell’avventura jihadista, in modo non diverso da
come scuole, servizi sociali e presenza delle associazioni strappano i giovani
italiani alle mafie. Questa è una lezione tutta italiana da comunicare al
mondo. Soprattutto la scuola: non è forse questa una battaglia ideale da fare
totalmente nostra e da annunciare al mondo come narrazione alternativa? Come dice Malala: “abbiamo capito l’importanza
delle penne e dei libri quando abbiamo visto le armi”.
Se ha coraggio
una ragazzina pakistana, non dovremmo crederci anche noi? Dobbiamo anzi
ringraziare perché la contro-narrazione all’Is, sorta dalla vicenda di questi e
tanti altri testimoni, ha ancora una sicura voce universale su cui contare:
quella di papa Francesco che non manca mai di parlare al cuore in
modo comprensibile al di là della Chiesa stessa. Allo stesso modo è degna di
rispetto ogni iniziativa di dialogo tra mondi religiosi diversi, che semina
amicizia e simpatia preparando così l’avvenire perché l’arte dell’incontro
batte ogni pregiudizio. 

Per convincere “cuori e menti” in Medio Oriente non basteranno denaro e
forza:
occorrerà trovare un linguaggio convincente rivolto
agli arabo-sunniti, oggi oggetto di una serissima contesa. Chi vincerà tale
duello ne trarrà un vantaggio geopolitico di primo piano. Dovrà essere una
politica risolutiva e unitaria, perché occorre far presto: il sangue versato
diviene muro di odio e rancore. La decisiva reazione all’Is, come ad altri
terrorismi, potrà alla fine venire solo in seno all’islam, svelando l’inganno e
la trappola dello “Stato islamico”. 

In questo senso importante è stata la lettera di oltre 130 leader
religiosi sunniti
indirizzata ad al Baghdadi (lui stesso un laureato in studi
islamici, non un dilettante): un testo durissimo, scritto con il linguaggio
teologico-politico che unicamente in quel mondo si può intendere. Va messa in
campo un’alternativa di politica, azioni e discorso, che tenga conto degli
equilibri di un mondo vasto e complesso com’è quello sunnita, che rappresenta
circa il 90% del miliardo e mezzo di musulmani nel mondo: tale è la posta in
gioco.

(fonte la
rivista di geo-politica LIMES)



Prof. Alessandro Grossato

“Lo scenario
geopolitico in Medio Oriente”


Alessandro Grossato è uno storico e geopolitico delle
religioni.
Docente di Religioni non cristiane presso la Facoltà Teologica del
Triveneto a Padova, ha insegnato nelle Università di Venezia, Padova, Trieste,
Gorizia, Perugia e Trento. Membro dell’Is.M.E.O. di Roma, negli anni 1984-89 ha
partecipato alla Missione archeologica italiana in Nepal. Nel 2004 ha fondato
assieme a Francesco Zambon la Collana Viridarium della Fondazione Giorgio Cini
di Venezia, e nel 2008, assieme a Carlo Saccone la Rivista Quaderni di Studi
Indo-Mediterranei, patrocinata dall’Università di Bologna. È membro
della Società italiana di storia delle religioni (SISR) e
dell’Associazione italiana per gli studi cinesi (A.I.S.C.). Nel
2004 ha fondato il Limes Club di Padova.
Dal 2011 è senior fellow
dell’Istituto di Politica e membro del comitato di direzione della
Rivista di Politica edita da Rubbettino. Fra le sue numerose
pubblicazioni: Navigatori e viaggiatori
veneti sulla rotta per
l’India
, Olschki, Firenze 1994; Il
libro dei simboli
. Metamorfosi
dell’umano tra Oriente e Occidente
, Mondadori, Milano 1999, e Il mito della fenice in Oriente e in
Occidente
, Marsilio, Venezia 2004. Sua ultima curatela, il volume Le Tre Anella. Al crocevia spirituale tra
Ebraismo, Cristianesimo e Islam
, Edizioni dell’Orso, Alessandria 2014.

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