L’Orto botanico di Padova e la Specola

TRA CIELO E TERRA.

Mi pare questo il titolo più azzeccato per la giornata che abbiamo trascorso a Padova sabato 18 aprile: se ci siamo avvicinati al cielo con la visita all’antico osservatorio astronomico della Specola, abbiamo poi piantato i piedi a terra, anzi le radici, nella visita all’ Orto Botanico, patrimonio dell’Umanità dal 1997.

Il primo monumento ci è stato illustrato da due brave guide del Museo, mentre la visita all’Orto è stata illustrata da una vera autorità in materia, la Prof.ssa Barbara Baldan, sorella del nostro Socio Luca, Vice Prefetto dell’Orto, che già il 9 aprile era venuta al Club per una relazione [V. foto in Galleria] e che ci ha oggi condotti per mano a visitare questa vera e propria meraviglia.

Laureata in Scienze Biologiche presso l’Università degli studi di Padova, in Francia ha condotto ricerche di dottorato, perfezionando le conoscenze di biologia cellulare delle piante e le tecniche di microscopia elettronica, presso l’Institut J. Monod e l’IBPC di Parigi. Dal 2000 è professore associato presso il Dipartimento di Biologia dell’Università degli Studi di Padova svolgendo attività scientifica su argomenti di biologia cellulare nelle piante. Dal 2013 ricopre la carica di Vice-prefetto del Centro di Ateneo Orto Botanico dell’Università di Padova.

Insomma di meglio non potevamo pretendere ed infatti grande è stata la soddisfazione e l’apprezzamento della trentina di Soci e amici che hanno trascorso una magnifica giornata padovana tra il sole del mattino e il temporale del pomeriggio.

La Specola

La Torlonga era un’antica torre di difesa, edificata nel IX secolo d.C. Fu risistemata da Ezzelino III da Romano nel XIII secolo ed è legata alla sua fama di crudeltà: fu infatti prigione e sala di tortura per i nemici del tiranno. Caduto il tiranno, il castello fu abbandonato.

Nella seconda metà del Trecento i nuovi signori di Padova, i Carraresi, edificarono il nuovo castello, sui resti del preesistente in parallelo al Bacchiglione. In una antica veduta della città di Padova è raffigurato colorato a quadri bianchi e rossi (Giusto de’ Menabuoi nella Basilica di Sant’Antonio di Padova). Con la costruzione delle mura cinquecentesche il castello e la Torlonga persero la loro funzione militare e caddero in abbandono. Infatti nel Settecento l’antica fortezza, in gran parte cadente, veniva chiamata “Castel Vecchio”, e da tempo era stata destinata a magazzino di granaglie, di paglia, di fieno, deposito di armi e munizioni.

Nel 1761 il senato veneziano decretò l’istituzione di un osservatorio astronomico per l’Università padovana. Il progetto fu voluto dall’abate Giuseppe Toaldo che assieme all’architetto Domenico Cerato di Vicenza utilizzò l’esistente torrione, aggiungendovi alla sommità la sala di accesso alle torrette d’osservazione. I lavori, condotti su progetto di Domenico Cerato, contemplavano la creazione di due osservatori distinti, ognuno adatto a svolgere una precisa funzione. Sulla sommità della torre sarebbe stato costruito l’osservatorio superiore, un ambiente ottagonale dotato di alte finestre per consentire, dall’interno della sala, l’osservazione del cielo dall’orizzonte fin quasi allo zenit. La terrazza circostante sarebbe stata più ampia verso sud per potervi collocare qualche strumento.

A circa 16 m di altezza sarebbe stato costruito l’osservatorio inferiore, una sala progettata appositamente per leggere il mezzogiorno sulla linea meridiana da incidere sul pavimento, e per l’osservazione degli astri nel passaggio al meridiano celeste. La testimonianza della trasformazione della torre-prigione in un luogo dedicato agli studi astronomici fu incisa una lapide sopra la porta a pianterreno della torre quando i lavori furono ultimati nel 1777. “Questa torre, che un tempo conduceva alle ombre infernali, ora sotto l’auspicio dei Veneti apre la via agli astri” Dal settembre 1772 all’agosto 1773 la sala ottagonale dell’osservatorio superiore venne affrescata dal pittore vicentino Giacomo Ciesa con soggetti di carattere astronomico ideati da Toaldo. Nel Settecento, e fino ai primi anni dell’Ottocento, l’accesso alla Specola avveniva dall’attuale piazza Castello.

Nel 1773, prima ancora che i lavori della Specola fossero finiti, Toaldo ottenne il permesso di collocare un parafulmine. Quello della Specola fu il primo parafulmine installato su un edificio pubblico nella Repubblica veneta – l’invenzione era stata fatta da Benjamin Franklin nel 1750 – con la consulenza del professore ginevrino Saussure, di passaggio per Padova.

Nel 1777 la Specola di Padova venne finalmente completata come edificio, ma altrettanto non si poteva dire del corredo strumentario. L’acquisizione degli strumenti avvenne a varie riprese; nel 1779, dopo un viaggio per nave dall’Inghilterra a Venezia, poi in battello dalla città lagunare sino all’Osservatorio, arrivò un grande quadrante che venne fissato al muro appositamente predisposto e orientato con grande precisione lungo l’asse nord-sud all’interno della sala meridiana. Nel complesso il corredo strumentario della Specola, verso la fine del Settecento, era formato da quadranti, cannocchiali rifrattori, orologi a pendolo, e altri strumenti per la misura delle coordinate celesti come lo strumento dei passaggi e la macchina parallattica.

Napoleone, il 25 luglio 1806, emanava il decreto con il quale veniva conservata l’Università di Padova, e con essa anche l’Osservatorio.

Con l’entrata in guerra dell’Italia il 24 maggio 1915, Padova, dopo Udine, divenne la sede del Comando supremo delle forze armate: furono requisiti dal Comando generale gli apparati telegrafici in uso all’Osservatorio per il servizio dell’ora; nel 1916 fu requisita la torre per il servizio di avvistamento degli aerei nemici. Nel 1919 i locali dell’Osservatorio furono riconsegnati all’università di Padova.

Con la costruzione della succursale di Asiago nel 1942 (Osservatorio astrofisico di Asiago) e il suo sviluppo negli anni successivi (Stazione osservativa di Asiago Cima Ekar), la torre della Specola non fu più usata per compiere osservazioni astronomiche. Alcuni locali furono invece trasformati per collocarvi la biblioteca antica e l’archivio. Nel 1994 l’Osservatorio di Padova, giuridicamente autonomo dal 1923, presentò domanda al Ministero delle Finanze per poter acquisire un nuovo edificio, la cosiddetta ‘Casa del Munizioniere’ del Castelvecchio, che era divenuta infermeria del carcere sotto il dominio austriaco. Nello stesso anno il consiglio direttivo deliberò l’istituzione della sezione museale dell’Osservatorio, con la denominazione di “Museo La Specola”. L’acquisizione dei nuovi spazi, avvenuta qualche anno più tardi, permise poi all’Osservatorio di ampliare il percorso museale e di destinare interamente la torre a museo.

Dal 1994, quindi, il Museo La Specola, conserva, restaura ed espone gli strumenti di osservazione utilizzati dagli astronomi padovani nel corso dei 250 anni della loro storia.

 

Orto Botanico

L’Orto botanico di Padova fu istituito nel 1545 per la coltivazione delle piante medicinali, che allora costituivano la grande maggioranza dei “semplici”, cioè di quei medicamenti che provenivano direttamente dalla natura. Proprio per questa ragione i primi orti botanici vennero denominati “giardini dei semplici” ovvero horti simplicium.

In quel tempo era già consolidata la fama dell’Ateneo padovano nello studio delle piante, soprattutto come applicazioni della scienza medica e farmacologica: qui infatti venivano lette e commentate le opere botaniche di Aristotele e di Tefrasto; sempre qui tra gli altri avevano studiato Alberto Magno di Laningen (1193-1280), considerato il più grande cultore della materia dopo Aristotele, e Pietro D’Abano (1253-1316), che aveva tradotto in latino la terapeutica greca di Galeno.

Nell’epoca in cui l’Orto fu fondato regnava grande incertezza circa l’identificazione delle piante usate in terapia dai celebri medici dell’antichità: frequenti erano gli errori e anche le frodi, con grave danno per la salute pubblica. L’istituzione di un horto medicinale, sollecitata da Francesco Bonafede che allora ricopriva la cattedra di “lettura dei semplici”, avrebbe permesso agli studenti un più facile riconoscimento delle vere piante medicinali dalle sofisticazioni. Per questo scopo il primo “custode” dell’Orto, Luigi Squalermo detto Anguillara, vi fece introdurre e coltivare un gran numero di specie (circa 1800).

L’Orto, per la rarità dei vegetali contenuti e per il prezzo dei medicamenti da essi ricavati, era oggetto di continui furti notturni, nonostante le gravi pene previste per chi avesse arrecato danni (multe, carcere ed esilio). Venne quindi ben presto costruito un muro di recinzione circolare (da cui anche i nomi di hortus sphaericushortus cinctus e hortus conclusus).

L’Orto era continuamente arricchito di piante provenienti da varie parti del mondo, specialmente dai paesi dove la Repubblica di Venezia aveva possedimenti o scambi commerciali; proprio per questa ragione Padova ha avuto un posto preminente nell’introduzione e nello studio di molte specie esotiche.

Nell’Orto patavino vivono alcune piante notevoli per la loro vetustà, normalmente indicate come alberi storici. Ciascuna di esse, come tutte le altre piante, reca l’apposita etichetta con il nome scientifico della specie (binomio latino), l’iniziale o la sigla dell’autore che per primo l’ha validamente denominata e descritta, la famiglia di appartenenza e il luogo di origine e, in questo caso, anche l’anno di introduzione oppure di impianto in Orto.

All’interno dell’Hortus sphaericus si possono ammirare una palma di S. Pietro che è attualmente la pianta più antica dell’Orto, messa a dimora nel 1585 e resa famosa da Goethe che le dedicò alcuni scritti e opere scientifiche, un ginkgo (Ginkgo biloba L.) del 1750 ed una magnolia (Magnolia grandiflora L.), probabilmente piantata nel 1786 e ritenuta la più antica d’Europa.

Altri alberi storici si trovano nell’Arboretum realizzato dalla seconda metà del Settecento all’esterno del muro circolare, ad opera specialmente dei prefetti Giovanni Marsili e Roberto de Visiani. In quest’area fu inserita anche una collinetta artificiale (“Montagnola” o Belvedere) con sentieri sinuosi secondo un disegno di parco romantico all’inglese: si trovano in questi spazi un gigantesco platano orientale (Platanus orientalis L.) del 1680 con il fusto cavo ed inoltre un cedro dell’Himalaya [Cedrus deodara (D.Don) G.Don fil.], molto meno vetusto del precedente e quindi non ancora considerato albero storico, ma importante perché si tratta del primo esemplare di questa specie introdotto in Italia (1828).

Alberi interessanti, anche se non storici, sono gli annosi cipressi calvi [Taxodium distichum (L.) Rich.] originari delle paludi della Florida e della Louisiana, inseriti lungo il canale Alicorno presso il ponte di ingresso (ponte delle priare), e una metasequoia (Metasequoia glyptostroboides Hu & Cheng), specie conosciuta solo come fossile fino al 1941, poi trovata vivente nella Cina Occidentale. I suoi semi sono stati diffusi in tutto il mondo e un individuo vive dal 1961 nell’Orto botanico di Padova, nel quarto medicinale presso la porta Sud, accostato alla cinta muraria. In vicinanza della porta Nord, è vissuto fino al 1984 un venerando esemplare di agnocasto (Vitex agnus-castus L.), la cui presenza in Orto è testimoniata dal 1550.

Nell’Arboretum sono stati collocati a scopo didattico anche due frammenti di tronchi. La parte basale del tronco di un gigantesco olmo (Ulmus minor L.), vissuto per circa un secolo e mezzo e morto nel 1991 a seguito di un attacco fungino, evidenzia sulla sezione trasversale gli anelli di accrescimento annuale (contrassegnati da chiodini) che permettono di calcolarne l’età. Un frammento di fusto subfossile di una grossa quercia, precisamente una farnia (Quercus robur L.), rinvenuta nel corso di scavi presso Padova, è risultato risalire a 2650 anni fa (datazione effettuata col metodo del carbonio radioattivo) e costituisce un’importante testimonianza della vegetazione della Pianura Padana prima della distruzione dei boschi ad opera dell’uomo. Purtroppo il contatto con l’atmosfera e la colonizzazione da parte di vari microrganismi hanno innescato un accentuato processo di decomposizione.

Oltre che per famiglie e specie, alcune piante sono state suddivise in collezioni tematiche, formate sulla base di determinate caratteristiche con lo scopo principale di sollecitare l’attenzione dei visitatori e di  stimolarne l’osservazione.

Chiamate spesso anche carnivore, si tratta di piante che compiono una normale attività fotosintetica e che riescono a colonizzare ambienti particolarmente poveri d’azoto e di sali minerali, dove trovano una limitata competizione da parte di altre specie, integrando le carenze nutrizionali con l’utilizzo di materiale organico derivato da insetti e piccoli animali.

A questo scopo, esse hanno modificato profondamente le loro foglie, che svolgono funzioni di richiamo, cattura e digestione delle prede e assorbimento dei prodotti della digestione. Le loro foglie possono così funzionare da trappole passive o attive, cioè dotate di movimenti determinati da variazioni di turgore di alcune cellule. Trappola attiva è ad esempio la foglia della trappola di Venere o pigliamosche (Dionaea muscipula Ellis), che si chiude ripiegandosi lungo la nervatura centrale, quando alcuni peli sensibili presenti sulla sua superficie intercettano un visitatore.

Trappole passive sono invece le foglie delle drosere (Drosera sp.pl.) ricoperte di peli ghiandolari secernenti un liquido vischioso, ricco di enzimi idrolitici che attira le prede e le intrappola (trappola a carta moschicida). Altre trappole passive sono quelle della sarracenia e delle nepenti (Sarracenia sp.pl., Nepenthes sp.pl.), le cui foglie sono ripiegate a forma di coppa (ascidio). Sul margine dell’ascidio numerose ghiandole secernono un liquido zuccherino che attira gli insetti, che scivolano poi dentro (trappola a scivolo). Le pareti della trappola sono infatti lisce e con peli rigidi rivolti all’interno, per impedire agli insetti la risalita. Sul fondo dell’ascidio si accumula un liquido contenente enzimi proteolitici, in cui vivono batteri specializzati che contribuiscono alla digestione della preda.

Queste piante trovano ospitalità nella prima delle serre ottocentesche, posta poco oltre la porta Nord, lungo il viale delle serre, dove è facile vederle anche in fiore.

Una ricca collezione di piante medicinali e aromatiche si trova all’interno  della parte più antica dell’Orto, nei due settori situati a ridosso del muro circolare tra le porte nord e sud.

Questa collezione, che rappresenta la diretta continuazione dell’attività dell’originario Horto medicinale, comprende anche alcune piante medicinali “storiche”, molto utilizzate in passato, ma che oggi non hanno più alcun interesse terapeutico.

La maggior parte delle specie coltivate in questi settori è però d’impiego attuale e la collezione viene costantemente aggiornata, con l’inserimento di nuove entità per le quali vengano dimostrate interessanti proprietà terapeutiche. Si coltivano anche alcune specie che, pur non contenendo sostanze di immediata utilizzazione, forniscono molecole che rappresentano per l’industria farmaceutica il punto di partenza per la semi-sintesi di sostanze utilizzate a scopo terapeutico. Tra queste, varie specie del genere Dioscorea e il tasso (Taxus baccata L.), usate rispettivamente per la semi-sintesi di ormoni e di sostanze antitumorali. Le piante sono coltivate nelle varie parcelle a seconda delle loro esigenze microclimatiche e sono provviste di un cartellino che ne indica, oltre al nome, anche le proprietà terapeutiche.

In un altro settore, tra la porta Est e sud, a ridosso del quarto della Magnolia, vengono esposte alcune delle più comuni piante velenose, spontanee e coltivate. Alcune sono le stesse che si possono vedere nel settore delle piante medicinali, perché le sostanze in esse contenute, anche se originariamente tossiche, possono produrre, se usate a dosi appropriate, effetti biologici utili alla cura di varie malattie. Si tratta tuttavia di piante che devono essere utilizzate con estrema cautela e solo sotto forma di farmaci e che, se ingerite, possono provocare avvelenamenti anche gravi, talora mortali. Il loro grado di pericolosità è indicato sul cartellino: una crocetta per le piante poco tossiche, due per quelle più tossiche, tre per quelle che possono essere mortali.

Fin dalla sua fondazione, l’Orto botanico di Padova fu al centro di una fitta rete di relazioni internazionali con scambi di semi, di piante e di materiale scientifico di ogni tipo. Fu così che l’Orto patavino ebbe un ruolo importante nell’introduzione in Italia e nell’acclimatazione di specie esotiche.

Alcune delle piante introdotte per la prima volta nell’Orto botanico di Padova, e da questo poi diffuse in tutto il territorio nazionale, sono allineate lungo il viale che fronteggia le serre ottocentesche; i cartellini identificativi riportano, in questo caso, anche l’anno di introduzione.

Tra queste, si possono osservare piante oggi molto diffuse perché di interesse ornamentale, come il lillà (Syringa vulgaris L.), il gelsomino giallo (Jasminum fruticans L.), la vite del Canadà [Parthenocissus quinquefolia (L.) Planch.], l’albero dei tulipani (Liriodendron tulipifera L.), il cedro dell’Himalaya [Cedrus deodara (D.Don) G.Don fil.], la fresia [Freesia refracta (Jacq.) Klatt], il cuor di Maria (Dicentra spectabilis Lem.). Altre sono piante alimentari di largo impiego, come il girasole (Helianthus annuus L.), il sesamo (Sesamum indicum L.), la patata (Solanum tuberosum L.). Alcune si sono spontaneizzate in Italia, come l’agave (Agave americana L.), la falsa acacia (Robinia pseudacacia L.) e l’albero del Paradiso [Ailanthus altissima (Miller) Swingle]; esse caratterizzano talora il paesaggio di vaste aree del territorio nazionale.

Sono circa 1.300 le specie che fanno parte del progetto espositivo del giardino della biodiversità. Vivono in ambienti omogenei per umidità e temperature, che simulano le condizioni climatiche dei biomi del pianeta: dalle aree tropicali alle zone subumide, dalle zone temperate a quelle aride. La posizione delle piante all’interno di ciascun ambiente e del laghetto delle piante acquatiche rispecchia una suddivisione fitogeografica: quello de “La pianta e l’ambiente” è un viaggio attraverso la vegetazione della Terra (in America come in Africa e Madagascar, in Asia, nell’Europa temperata, in Oceania). E il visitatore ha l’immediata rappresentazione della ricchezza (o povertà) di biodiversità presente in ciascuna fascia climatica. Il Giardino non racconta il pianeta dal punto di vista dell’uomo, o a partire dal mondo animale, sposta invece l’attenzione sulle forme di vita vegetali. A partire dalle domande “cos’è un essere vegetale?”, “quali sono le caratteristiche che lo rendono così indispensabile per la nostra esistenza?”, emerge il ruolo svolto dalle piante nell’evoluzione umana: dai primi insediamenti in epoca preistorica ad oggi. Già nel 1880, nel testo The power of movements in plants, Darwin scriveva che “la punta della radice agisce come il cervello di un animale inferiore”. Un’intuizione, questa, che trova riscontro nelle più recenti scoperte scientifiche e che idealmente ispira il percorso La pianta e l’uomo. Pannelli informativi, filmati, exhibit interattivi, reperti raccontano come l’intelligenza vegetale e l’intelligenza umana abbiano svolto un comune percorso di coevoluzione da Lucy sino ai nostri giorni. Le piante intanto raccontano il loro millenario rapporto con l’uomo: usate per nutrire, per curare o per costruire gli oggetti che fanno la nostra storia. All’esterno delle serre le aiuole vengono dedicate a temi specifici e prevedono la coltivazione di specie compatibili con il clima locale, quali le piante alimurgiche, i giardini fioriti, le piante aromatiche. I giardini tematici sono infatti uno spazio aperto all’implementazione in nome dell’interesse scientifico dell’Orto e della divulgazione al pubblico.

 

Il Giardino della biodiversità

La nuova struttura è stata ideata dall’architetto Giorgio Strappazzon dello studio VS Associati di Vicenza, che ha vinto un concorso internazionale con un progetto di forte effetto, basato su un’estetica moderna e razionale e sul basso impatto ambientale.

Spicca nel nuovo spazio, distinto ma perfettamente contiguo all’Hortus simplicium, l’edificio delle serre, con un fronte di 100 metri interamente rivestito in vetro e un’altezza che arriva fino a 18. Un effetto ottenuto attraverso un nuovo sistema di fissaggio, senza profili esterni e in grado di sopportare carichi di vento oltre i 400 kg/mq. Un vero e proprio Solar Active Building, progettato per mantenere e trasformare l’energia solare attraverso l’impiego di materiali innovativi e l’installazione di pannelli fotovoltaici. Il complesso sarà inoltre provvisto di un sistema per la raccolta dell’acqua piovana, che sarà poi immagazzinata per essere utilizzata nell’irrigazione delle piante. Sono 1.300 le specie provenienti da tutto il mondo ospitate, che si aggiungeranno alle 6.000 già presenti nell’Orto storico. Le piante sono divise in ambienti omogenei per umidità e temperature, che simulano le condizioni climatiche dei biomi del Pianeta: dalle aree tropicali a quelle subumide, dalle zone temperate a quelle aride. 

Si tratta probabilmente dell’intervento più importante nella storia dell’Orto botanico, negli oltre 450 anni dalla sua creazione. La riflessione sulla necessità di una ristrutturazione e di un ampliamento risalgono agli anni Novanta del secolo scorso, quando l’abbassamento della falda acquifera mette in pericolo il delicato ecosistema del giardino. Nel 2003 viene acquistata l’area dove oggi sorge il Giardino della biodiversità, con lo scopo innanzitutto di fornire all’Orto una cintura di protezione rispetto all’ambiente urbano circostante. Dopo la scelta del progetto e il completamento delle serre, la nuova struttura negli ultimi mesi è stata fornita di un apparato espositivo d’avanguardia, articolato in diversi percorsi tematici e in decine di reperti, pannelli, video e postazioni interattive. L’obiettivo è anche quello di aprire l’area a un rapporto sempre più stretto con la città, rafforzandone al tempo stesso il suo potenziale attrattivo per i turisti, italiani e stranieri. 

Renato Maria Cesca

Foto della prof. Baldan in conviviale del 9 aprile, della Specola e dell’Orto botanico il 18 aprile, in Galleria

 

 

 

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